Dina si trova a Rafah, quindi al confine con l’Egitto.
Purtroppo con Maysaa sono tre giorni che non riesco ad avere contatti, praticamente da pochi giorni dopo la fine della tregua. Nonostante non risponda ai messaggi ho visto che ha fatto accesso a Whatsapp ieri notte questo dovrebbe significare che sono riusciti a evitare i bombardamenti Mi aveva scritto che si sarebbero dovuti spostare perché la zona era diventata pericolosa. L’ultima volta che l’ho sentita ha detto che suo fratello e sua moglie sono rimasti feriti nei bombardamenti.
Dai canali che sto seguendo, in particolare quelli dei corrispondenti Gazawi, l’esercito sta diffondendo, tramite volantini, l’ennesimo avvertimento alle persone di spostarsi. La zona che hanno indicato questa volta è una zona estremamente piccola e desertica, senza infrastrutture, né acqua. Questo significa che, da una parte l’esercito e il governo israeliano vogliono passare per quelli che cercano di evitare bombardare i civili (20.000 morti in due mesi…), dall’altra stanno spingendo le persone verso zone dove si troveranno a soffrire la fame e la sete.
Nel frattempo la situazione in Cisgiordania è drammatica. Ci è arrivata una notizia da parte di uno dei partner di Casapace che l’esercito è entrato nel campo profughi dove si trova perché cercano suo cugino. Non avendolo trovato a casa hanno arrestato 25-30 persone. Molte di queste sono state picchiate e torturate (tra cui il partner di Casapace stesso). L’esercito ha minacciato di bombardare la casa della sua famiglia e hanno dichiarato di entrare nel campo profughi tutti i giorni fino a che il cugino del nostro partner non si costituirà. Quello apena descritto ricade perfettamente nella casistica della punizione collettiva.
La persona che stanno cercando ha passato 15 anni in carcere in quanto attivista culturale e politico. Viene continuamente arrestato in regime di detenzione amministrativa per un periodo di 3-6 mesi. Il periodo spesso viene esteso, oppure, in caso venga rilasciato, avviene un nuovo arresto dopo poco tempo. Spesso viene tenuto in cella di isolamento ,La detenzione amministrativa comporta l’arresto senza che vi sia alcuna accusa (prima del 7 ottobre erano mille le persone in regime di detenzione amministrativa). In detenzione amministrativa, non essendoci alcun carico pendente, non si ha nemmeno diritto ad un avvocato.
Nei giorni scorsi mi è giunto anche un messaggio vocale da parte del mio amico di Ramallah. Mi ha raccontato che ha deciso di andare a trovare la sua famiglia, dopo quasi due mesi senza poterli vedere.
Mi ha raccontato che raggiungerli e tornare a casa è stato estremamente difficile. Il villaggio dei suoi genitori si trova solo ad un’ora di distanza da Ramallah, ma è stato fermato a un checkpoint sia all’andata che al ritorno. All’andata i soldati l’hanno fatto aspettare per due ore prima di chiedergli il documento, per poi farlo aspettare un’altra ora, per effettuare gli accertamenti di sicurezza. Al ritorno è stato ancora peggio. Il mio amico ha lasciato il villaggio alle 17:00 ed è rientrato a casa alle 2-3:00 del mattino. È stato fermato insieme ad altre 2 ragazze e 4 ragazzini. Li hanno bendati e fatti aspettare due o tre o quattro ore, non sa nemmeno lui quanto tempo sia passato. Per non pensare alla situazione ha detto che si concentrava solo sui bei ricordi. Solo dopo questa attesa li hanno interrogati, hanno preso i loro cellulari, hanno chiesto loro se supportano Gaza e la resistenza. Man mano sono diventati sempre più rudi, soprattutto con le ragazze. Dopodiché li hanno lasciati aspettare altre due o tre ore con la scusa di fare i controlli di sicurezza. Ovviamente era solo una scusa per detenerli ancora, poiché i controlli di sicurezza, per una potenza tecnologica come Israele che ha investito milioni in sistemi per il controllo e la schedatura dei palestinesi, potrebbero essere fatti in pochi secondi, al massimo minuti.
Tutto questo ci racconta della situazione paradossale in cui vivono i palestinesi, che vengono fermati ai checkpoint, senza alcun motivo, per diverse ore, come strumento repressione e per rendere loro la vita difficile, se non impossibile, e che allo stesso tempo sono controllati, schedati da tecnologie di altissimo livello, che Israele si rivende in tutto il mondo (Israele è al decimo posto nel mondo nel mercato militare).
Vi lascio con l’ultima frase con cui ha concluso il messaggio: “È un momento difficile, è una situazione folle, ma ne è valsa la pena e lo rifarò ancora, non mi importa quanto difficile sarà la situazione. In questo periodo ho questa sensazione: in una situazione così amo il mio paese ancora di più, ma sento anche che non c’è futuro. In due mesi tutti i nostri sogni, le nostre passioni, tutto il duro lavoro che facciamo è stato distrutto“.