Quello che colpiva di più, non appena si metteva piede nella città di Faenza nei giorni successivi all’alluvione, uscendo dalla stazione, era la polvere. L’aria non era mai tersa, anche se il sole splendeva sulla città, nel respirarla se ne poteva percepire la componente solida entrare nelle vie respiratorie. Osservando l’asfalto si poteva vedere che il normale colore grigio scuro della strada era ingiallito da un sottile strato di argilla depositata da poche ore.
Il 26 maggio, quando sono arrivato per la prima volta dopo l’esondazione, il Lamone era già defluito e aveva ritrovato il suo normale flusso, ma aveva lasciato dietro di sé una scia di danni di cui ancora, a un mese di distanza si percepiscono gli effetti. Si possono percepire con tutti i sensi, i colori della strada, l’odore pungente di fango nell’aria e nelle cantine, il silenzio di alcuni quartieri di notte, la sensazione del fango fresco o secco sulla pelle, il suo sapore quando non si sa dove pulirsi e ce lo si ritrova per sbaglio in bocca.
Una volta riemersi dal primo seminterrato, quando ormai la maggior parte del lavoro era fatto, abbiamo ripreso nella sala delle caldaie, ancora immersa in diversi centimetri di fango. Chi da sotto spalava il fango, passava i secchi pieni a una catena umana che a un ritmo incredibilmente rapido portava il fango in superficie. Il ritmo veniva scandito dalle voci che avvertono le condizioni del secchio che sta per arrivare “pieno!”, se in salita, “vuoto!”, in discesa.
Quello che colpisce è la relativa rapidità con cui si compie questo piccolo miracolo. Quando vedi la stanza ancora piena di fango, sembra quasi impossibile che nel giro di qualche ora si riesca a svuotarla della maggior parte dei residui, eppure ad un certo punto si sente le pale che raschiano il fondo. L’unico caso, forse, in cui questa espressione assume un significato positivo.
Quando si riemerge, però, si scoprono i cumuli di macerie, i cumuli di tessuti, oggetti, quaderni, libri, mobili. Tutti lì in attesa di qualcosa.
Alla parrocchia San Francesco il chiostro era pieno di oggetti, abiti talari, sedie, croci, tutti al sole ad asciugare. Fuori da lì, invece, c’erano cumuli di oggetti in attesa di essere portati via.