Durante il pomeriggio di sabato 27 maggio, dopo aver passato la mattinata a spalare i seminterrati della Parrocchia San Francesco, ho accompagnato Davide a fare alcuni sopralluoghi sull’argine del Lamone distrutto
La parte di argine distrutto si trovava vicino ad una zona residenziale che, paradossalmente, pur essendo stata colpita, non ha subito danni gravi quanto le zone di via Lapi e via Carboni, dove l’acqua ha raggiunto i secondi piani dei palazzi. Tuttavia, per raggiungere il fiume è necessario attraversare un parco ormai riconoscibile solo per la presenza di panchine, altalene e altri giochi per i bambini, che si ergono sopra uno strato di diversi centimetri di argilla che, man mano che si asciuga, si secca, si crepa e forma una sorta di puzzle di mattonelle grigie, argillose, pesanti e collose. Nelle zone più in ombra il fango è ancora abbastanza liquido, al punto che vi si sprofonda dentro con i propri scarponi o con gli stivali. Una volta che la suola viene sigillata dentro la mattonella di argilla l’effetto ventosa strappa via le scarpe, per cui la camminata risulta faticosa, lenta. Trovo una paio di scarpe da ginnastica completamente infangate, vicino a un’altalena, mi chiedo come possano essere rimaste lì. Non so se l’effetto ventosa del fango sia la spiegazione che più si avvicina alla risposta giusta al mio quesito, ma in tal caso ciò significherebbe che il suo proprietario ha proseguito il proprio cammino scalzo. Non mi pare di vedere altre tracce lì vicino. Quelle scarpe rimangono ancora un mistero. Provocano la mia immaginazione, così come lo fanno tutti gli oggetti che trovo abbandonati in giro, quei cumuli che costellano le strade di Faenza.
Saliamo sull’argine e seguiamo il sentiero. Alla nostra sinistra si estende il parco, alla nostra destra l’argine lascia spazio ad una golena ricoperta di fango. Qui e là emergono i resti degli orti urbani, coltivati sulla golena stessa. Vicino al punto in cui l’argine è crollato qualche fila di aglio ha resistito.
L’argine abbattuto mi scuote: si è creata una breccia difficile da attraversare senza arrampicarsi, da parte a parte.
Troviamo il punto in cui scendere e poi risalire. Sul fondo bisogna scavalcare un tubo di un canale di scolo, una volta completamente interrato, ma al momento del sopralluogo completamente scoperto. Scatto qualche foto, mentre Davide esegue il suo sopralluogo. Mi incuriosisce il tavolo di plastica ribaltato vicino alla breccia. Mi chiedo come non sia finito a centinaia e centinaia di metri di distanza, quale forza del caso (o caotica) lo abbia lasciato vicino a dove, immagino, è sempre stato.
Dall’altra parte dell’argine si estende di fronte a noi la solita traccia lasciata dall’acqua esondata: i campi oltre l’argine hanno fatto, per quanto possibile, da cassa di espansione ed ora sono ricoperti da uno strato di argilla spesso diversi centimetri che si estende per centinaia di metri quadrati. Questa cassa di espansione non è stata comunque sufficiente a fermare la furia che più a valle si è abbattuta sulla città: in questo punto il fiume inizia una lunga ansa, per cui, continuando a seguire l’argine si arriva in un punto in cui dalle tracce della vegetazione si intuisce che molto probabilmente l’acqua era talmente alta e la portata talmente forte, che il flusso ha scavalcato nuovamente l’argine rientrando nel fiume stesso e, poco più in là, ha inondato anche il cimitero.
L’atmosfera di silenzio che si respira nel cimitero ha qualcosa di surreale, i vasi tutti accatastati sulle tombe, alcuni coperchi rotti, fango secco o ancora fresco, a seconda dell’esposizione al sole, sulle pietre tombali e le lapidi, fiori finti rovesciati e ancora qualche lume elettrico acceso. Una quiete assordante. Mi aggiro da solo in mezzo a questo caos.
Scatto foto.
Anche senza volerlo mi trovo a immaginare il cimitero sommerso dall’acqua e dal fango, di notte.
Dopo un po’ temo di essere rimasto solo e torno a cercare Davide.
Torniamo a San Francesco. Lì incontriamo Roberto. Da molti anni ha preso in eredità la cura di un enorme presepe che si trova in una stanza che sarà lunga almeno venti metri. Costruisce le statue e i meccanismi per muoverle. Le statue sono decine, forse centinaia, ognuna costruita con grandissima cura. Sono pezzi di artigianato unici. Ogni anno ne aggiunge qualcuna, ma molte di queste hanno diversi anni. Tutte sono dotate di meccanismi meccanici ed elettronici che le muovono. Roberto, con la sua passione per la meccanica e l’elettronica, riesce a creare un’atmosfera incredibile. Davide racconta che, per lui, da bambino, il Natale era proprio questa visita al presepe. Le statue si sono salvate dall’inondazione, ma si è trattata di una questione di pochi centimetri, altrimenti sarebbero andate tutte distrutte. Tutti i meccanismi, invece, sono rimasti sommersi dal fango che si è pian piano insinuato sotto la porta. Andranno testati puliti, sostituiti o ricostruiti uno ad uno. Sono centinaia.