Durante il mese di luglio 2024 ho passato molto tempo in Punjab incontrando diversi agricoltori. Ne è nato un articolo pubblicato da PagineEsteri.
Con questo articolo cerco di completare il racconto dell‘esperienza tra gli agricoltori mi ha portato a conoscere diversi aspetti della realtà del Punjab, soprattutto viaggiando tra le fattorie degli agricoltori biologici e naturali che fanno parte dell’organizzazione Kheti Virasat Mission (KVM). KVM, fondata dal giornalista Umendra Dutt nel 2005, si occupa di diffondere i principi dell’agricoltura biologica tra gli agricoltori del Punjab.
Il Punjab ha una storia molto particolare, che lo ha reso, durante la Rivoluzione Verde durante gli anni ’60, il cestino del pane dell’India. Ciò ha comportato uno sviluppo agricolo sproporzionato, trasformando una società di agricoltori principalmente tradizionali e di sussistenza in una di agricoltori intensivi, anche se nella maggior parte dei casi marginali, con terreni di piccole dimensioni, che praticano quasi esclusivamente un regime monocolturale con elevato uso di fitofarmaci chimici.
Oggi il Punjab si ritrova con un territorio altamente inquinato e con diversi problemi ambientali tra cui un sovrasfruttamento delle acque di falda, il cui livello si riduce di anno in anno a causa delle coltivazioni a risaia.
I tanti agricoltori incontrati hanno raccontato le proprie storie. Molti di loro hanno modificato le proprie coltivazioni da “industriali” a biologiche o naturali a causa di eventi personali drammatici, come nel caso Swarn Singh, che nei primi anni 2000 ha convertito le proprie produzioni in biologiche, in seguito alla morte della moglie per un cancro, dovuto all’elevato uso di pesticidi nei campi.
Harteh Singh Metha dal 2020 pratica l’agricoltura biologica per far fronte all’eccessivo uso di acqua e di fitofarmaci chimici, usati nell’agricoltura convenzionale. il punto di svolta c’è stato quando si è reso conto che l’uso dei fitofarmaci chimici non solo era diventato inefficace, ma stava raggiungendo costi non più sostenibili.
Manghi Ram Majugarh ha convertito otto anni fa i propri 6 acri di terreni in frutteti biologici, dopo che l’uso della chimica era diventata inefficace nei confronti di insetti e parassiti.
Fa uso di tecniche naturali e sinergiche e utilizza gli scarti delle proprie produzioni per preparare composti naturali che fanno da antiparassitari e fertilizzanti. Mi ha spiegato che l’uso di antiparassitari naturali che repellono gli insetti, piuttosto che ucciderli, fa sì che questi non sviluppino forme di resistenza, come accade nel caso di pesticidi chimici. Girando nel suo terreno si possono trovare decine di specie di alberi e piante differenti, contrariamente a quanto accade nella maggior parte dei campi del Punjab, dove vengono coltivati quasi esclusivamente grano e riso.
Girando tra le campagne del suo distretto è ancora possibile trovare diverse famiglie che coltivano i propri terreni in maniera non intensiva. In molti casi tutta la famiglia è coinvolta nell’attività agricola, donne, uomini e persone anziane.
Nella maggior parte dei casi, però, la coltivazione prevede l’uso massiccio della chimica.
Non raramente gli agricoltori usano dosi massicce di fertilizzanti e di pesticidi, che diventano sempre meno efficaci a causa dell’impoverimento dei terreni e dell’aumento della resistenza dei parassiti e degli insetti.
Così spesso gli agricoltori si indebitano per acquistarli, senza che però questo porti a maggiori rese dei terreni.
La maggior parte dei terreni è coltivata solo a riso e grano, in un sistema monocolturale, a causa di un sistema di prezzi garantiti dal governo, il Minimum Supported Price, che però è limitato solo a queste due coltivazioni.
Quando inizia la stagione della piantumazione del riso, nei campi si vedono migliaia di braccianti che giungono da diverse parti dell’India. Sono lavoratori stagionali che vengono pagati intorno alle 400 rupie al giorno (90 rupie corrispondono a un euro circa).
Surinder Pal Singh e la sua famiglia possiedono circa 300 acri di terreno, di cui 100 acri dedicati a coltivazioni biologiche da sempre. MI spiega che le aree coltivate a biologico sono aree da sempre non irrigate, ma alimentate solo tramite acqua piovana.
La terra che possiedono è stata ereditata dai loro antenati, che, arrivati dal confinante Rajastan, la acquistarono nel 1853 dai colonizzatori inglesi, che a loro volta la conquistarono nel 1839.
Dopo la Rivoluzione Verde, iniziata negli anni ’60, già nel 1975 i suoi nonni cercavano di spiegare ai piccoli agricoltori che pesticidi e fertilizzanti chimici sarebbero stati “come droghe”: i terreni sarebbero presto diventati dipendenti dalla chimica e avrebbero richiesto quantità sempre maggiori di fitofarmaci. Ma le condizioni economiche e la necessità di fornire raccolti regolari ha fatto sì che solo una parte dei terreni continuasse ad essere coltivata in maniera tradizionale e naturale.
Una mattina Surinder ha mostrato i vecchi documenti dell’acquisto della terra da parte dei suoi antenati. Tra questi una mappa catastale della città stampata su tessuto.
Nella cultura tradizionale indiana il villaggio è concepito come sistema. Mahatma Gandhi, lo aveva teorizzato già da prima dell’indipendenza: si trattava del Gram Swaraj.Un organismo autosufficiente e in armonia con la Natura, in cui ogni persona ha un ruolo che ruota attorno all’attività agricola.
Molti degli agricoltori intervistati e Umendra Dutt di KVM mi hanno spesso ripetuto che tradizionalmente l’agricoltura non era considerata un lavoro, ma piuttosto uno stile di vita.
Ancora oggi nei villaggi agricoli si trovano molti artigiani, tra cui carpentieri, vasai e falegnami, che producono gli strumenti per la coltivazione. In questo sistema spesso il lavoro era remunerato in natura: gli artigiani procuravano gli strumenti agli agricoltori, che a loro volta fornivano loro grano e cibo, dopo la raccolta.
Questo sistema funzionava anche tra le famiglie dei proprietari terrieri e dei braccianti. Il legame tra le famiglie di braccianti e lavoratori e quelle dei proprietari terrieri si ereditava così per generazioni. Oggi questo sistema di legami si sta perdendo, ma nei casi in cui le famiglie di proprietari e di braccianti e lavoratori mantengono questo legame, il salario viene compensato con ulteriore fornitura di legname, medicine, quando necessario, e altre forme di pagamenti in natura.
La permanenza di alcune pratiche tradizionali è testimoniata anche dalla presenza, lungo le strade, di diversi siti di produzione del carbone per le cucine.
Si tratta di forni in mattoni di forma semisferica, la cui porta viene chiusa una volta che sono riempiti completamente da ceppi di legno. I ceppi, a causa della scarsa quantità di ossigeno che vi entra dai fori lungo le pareti, viene fatto bruciare per diversi giorni, molto lentamente. La combustione incompleta trasforma il legname in carbone.
Seguendo il concetto di Gram Swaraj, Rupsi Gargi, coordinatrice del progetto Trinjan di KVM, mi spiega che dal 2018 sta lavorando con le donne del villaggio di Jaitu per recuperare le antiche tecniche di tessitura.
Il Punjab era originariamente una terra di produzione del cotone, in particolare della variante locale Desi, oggi sostituito dalla variante geneticamente modificata Bt Cotton, portata in India inizialmente da corporazioni multinazionali quali Monsanto e Mahyco, nel 2002. Oggi il cotone è praticamente scomparso in Punjab, sostituito dal riso.
“L’industrializzazione, l’economia di mercato hanno disconnesso i legami tra agricoltori e artigiani e trasformatori che tradizionalmente c’erano nel sistema rurale”, mi spiega Ruspi Garg.
Recuperare le tecniche tradizionali di tessitura, tramite la scuola di tessitura fondata nell’ambito del progetto, che oggi coinvolge circa 30 donne, ha un impatto multidimensionale che riguarda aspetti culturali, educativi e di recupero delle coltivazioni e dell’artigianato tradizionale, oltre all’insegnamento alle donne partecipanti di un lavoro che è una potenziale fonte di reddito.
Ma il Punjab è da molti anni al centro delle cronache indiane anche per le proteste che migliaia di agricoltori portano avanti da molti anni, a periodi alterni.
Come approfondisco nell’articolo pubblicato da PagineEsteri da febbraio gli agricoltori sono nuovamente in protesta, con un sit-in permanente, per chiedere al governo l’estensione del sistema di prezzi garantiti, secondo loro una misura necessaria per garantire una maggiore diversificazione delle coltivazioni, oggi limitate a riso e grano.
Il sit-in è bloccato da gennaio alle porte dell’Haryana, presso lo Shambha Border. Il 22 gennaio, lo scontro con la polizia ha provocato la morte di un manifestante di 22 anni, colpito da un bossolo di gas fumogeni.
Anche se la richiesta di estendere il sistema di prezzi garantiti è una richiesta legittima per proteggere gli agricoltori da fluttuazioni di mercato e da grandi corporazioni multinazionali che hanno sproporzionate capacità di stabilire i prezzi a piacimento, ristabilire un sistema che rispetti le leggi di Natura e garantisca allo stesso tempo la sicurezza alimentare necessita di ulteriori forme di intervento e ricerca scientifica, in cui la qualità del cibo, la salute e l’ecologia siano il vero “Centro di gravita permanente” della società.