L’aria di Faenza

Quello che colpiva di più, non appena si metteva piede nella città di Faenza nei giorni successivi all’alluvione, uscendo dalla stazione, era la polvere. L’aria non era mai tersa, anche se il sole splendeva sulla città, nel respirarla se ne poteva percepire la componente solida entrare nelle vie respiratorie. Osservando l’asfalto si poteva vedere che il normale colore grigio scuro della strada era ingiallito da un sottile strato di argilla depositata da poche ore.

Il 26 maggio, quando sono arrivato per la prima volta dopo l’esondazione, il Lamone era già defluito e aveva ritrovato il suo normale flusso, ma aveva lasciato dietro di sé una scia di danni di cui ancora, a un mese di distanza si percepiscono gli effetti. Si possono percepire con tutti i sensi, i colori della strada, l’odore pungente di fango nell’aria e nelle cantine, il silenzio di alcuni quartieri di notte, la sensazione del fango fresco o secco sulla pelle, il suo sapore quando non si sa dove pulirsi e ce lo si ritrova per sbaglio in bocca.

Alluvione di Faenza
Ho immerso per la prima volta i miei piedi e le mani nel fango il giorno dopo. Sono arrivato alla Parrocchia di San Francesco con Davide Merli, il mio amico faentino che in queste settimane mi ha accompagnato e ospitato a più riprese. Appena arrivato, una volta infilati gli stivali di gomma e i guanti da lavoro mi hanno spedito nel seminterrato. Mentre scendevo le scale entravo in una dimensione sconosciuta, spettrale, umida, buia. Poche luci di faretti illuminavano la via, le voci che rimbombavano nei corridoi hanno fatto il resto e mi hanno guidato nelle sale dove ho trovato diversi volontari che riempivano secchi con le proprie pale e li passavano ad altri volontari che li portavano verso un’altra stanza da cui si poteva vedere un filo di luce naturale.
Appena prendi in mano il primo secchio di macerie e fango sei già sporco. Inizi a partecipare alla catena umana, mentre il fango schizza ovunque, ti abitui pian piano al terreno scivoloso e inizi da subito a sentire che il lavoro da fare è lungo e necessita di una collaborazione silente tra le persone. Una collaborazione che da subito è spontanea. Si comprende per istinto il flusso del lavoro, si capisce quando dare un cambio a qualcuno che sta facendo un lavoro più pesante, si vede gli altri che capiscono quando dare il cambio a te. A un certo punto sembra di avere sempre conosciuto i propri compagni di fango. Nonostante tutto, l’umore è alto, si scherza, si gareggia a chi spala di più e più veloce, ci si imbratta.

Una volta riemersi dal primo seminterrato, quando ormai la maggior parte del lavoro era fatto, abbiamo ripreso nella sala delle caldaie, ancora immersa in diversi centimetri di fango. Chi da sotto spalava il fango, passava i secchi pieni a una catena umana che a un ritmo incredibilmente rapido portava il fango in superficie. Il ritmo veniva scandito dalle voci che avvertono le condizioni del secchio che sta per arrivare “pieno!”, se in salita, “vuoto!”, in discesa.

Quello che colpisce è la relativa rapidità con cui si compie questo piccolo miracolo. Quando vedi la stanza ancora piena di fango, sembra quasi impossibile che nel giro di qualche ora si riesca a svuotarla della maggior parte dei residui, eppure ad un certo punto si sente le pale che raschiano il fondo. L’unico caso, forse, in cui questa espressione assume un significato positivo.
Quando si riemerge, però, si scoprono i cumuli di macerie, i cumuli di tessuti, oggetti, quaderni, libri, mobili. Tutti lì in attesa di qualcosa.

Alla parrocchia San Francesco il chiostro era pieno di oggetti, abiti talari, sedie, croci, tutti al sole ad asciugare. Fuori da lì, invece, c’erano cumuli di oggetti in attesa di essere portati via.

Mi hanno attratto continuamente le decine di cumuli, quelle che trovavo in giro ancora di più di quelle che ho contribuito a creare: avevo il tempo di soffermarmi, di osservarle e di immaginare quegli oggetti nella casa di qualcuno, ancora con una funzione, o forse lasciati lì già da tempo, accumulati in qualche armadio o credenza. Ma nessuno si sarebbe immaginato che sarebbero finiti così, immersi in questa melma grigia che si infila ovunque.

Leave a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Scroll to Top