Dina, Rami e i loro figli, Mohamed, Asia e Fatima sono una famiglia di Gaza.
Li ho conosciuti in un ostello della città vecchia di Gerusalemme nell’estate 2023. La sera mi capitava di mettermi ad un tavolino della reception dell’ostello per lavorare sulle fotografie che scattavo durante il giorno. Incontrandoci abbiamo provato reciproca curiosità e abbiamo cominciato a comunicare nonostante la barriera linguistica.
Quando non c’era Fatima, che era in grado di parlare inglese, ci parlavamo utilizzando Google Translate, o chiedendo al proprietario dell’ostello, Mustafa, di darci una mano a capirci.
Ho provato stupore nel sapere che venissero da Gaza, sapendo che alla popolazione di quella striscia di terra sigillata non è permesso uscire, se non in casi eccezionali. Il loro caso eccezionale è rappresentato dal cancro da cui sono affetti tutti e tre i ragazzi.
La possibilità di uscire da Gaza per motivi sanitari non è scontata, solo il 66% delle richieste viene accolta. In questa drammatica percentuale, oltre alla famiglia di Dina e Rami ho conosciuto altre tre famiglie, tutte per motivi simili: cancro, malformazioni cardiache, o, ancora, malattie da meglio identificare. Hanno passato un mese a Gerusalemme in una delle stanze dell’ostello. Li incontravo la sera, perché di giorno erano in ospedale, o alla moschea di Al Aqsa a ripararsi dal caldo insopportabile di quei giorni.
Ho chiesto loro di Gaza: “A Gaza si soffre, non c’è lavoro, non c’è acqua, non c’è elettricità…”. “…voi sorridete sempre…”, “confidiamo in Allah”.
Un giorno ho proposto loro di fotografarli. Desideravo lasciare un ricordo del nostro incontro. Qualcosa che esaltasse la bellezza che mi avevano trasmesso. Così, una sera, insieme a uno dei miei amici e compagni di viaggio, ho preparato un set fotografico sul tetto dell’ostello, al buio, illuminandolo solo con la luce dei lumini, come immaginavo che potesse essere spesso la notte a Gaza, e ho scattato queste foto. Sono partito da Gerusalemme e sono tornato pochi giorni prima che ripartissero. Ho stampato e incorniciato le foto e gliele ho regalate.
Oggi le stampe che ho regalato a Dina, Rami, Mohamed, Asia e Fatima sono andate distrutte insieme alla loro casa a Jabalya, uno dei primi obiettivi dei bombardamenti dell’esercito israeliano nel mese di ottobre 2023.
La storia di Maysaa è simile: è andata da sola a Gerusalemme insieme a due delle tre figlie, lasciando il marito a Gaza. Ci incontravamo tutte le sere al tavolino della reception dove lavoravo alle fotografie. Lei guardava con curiosità lo schermo del mio computer, intanto bevevamo the insieme prima di andare a dormire. Comunicavamo come potevamo, a volte con l’aiuto di Abdul, il padre di Mustafa.
Anche la casa di Maysaa non c’è più.
Da quando Gaza è sotto il costante attacco di Israele sto cercando di mantenere il contatto con queste famiglie e con le tante persone che ho conosciuto in Palestina e da oltre due mesi cerco di aggiornare diversi amici sulla condizione di queste persone. Questo perché spero che le notizie di prima mano, da parte di coloro che stanno vivendo questa catastrofe, aiuti a mantenere viva l’attenzione e a percepire che quanto sta accadendo non è lontano, non è fiction, non è qualcosa per la quale è impossibile fare qualcosa. Soprattutto per fare percepire che quanto sta succedendo, sta accadendo a persone vere, reali, in carne ed ossa, tridimensionali.