Intanto oggi la Corte Internazionale di giustizia dovrebbe pronunciarci rispetto all’accusa di genocidio intentata dal Sud Africa. Comunque vada, credo che si sia trattato di un momento storico importante, per cominciare a mettere in discussione l’intoccabilità di cui Israele gode da troppo tempo. Spero solo che sia un’occasione persa, un’altra volta.
Domani sarà anche la Giornata della Memoria. Sarà una Giornata della Memoria difficile, perché Israele e i suoi sostenitori da tempo accostano qualunque critica alle politiche israeliane all’antisemitismo. Purtroppo si accodano a Un accostamento che non trova fondamento nei fatti, dal momento che la storia di Israele è la storia di uno stato che ha commesso una pulizia etnica, ovvero la cacciata dei palestinesi dalla propria terra, mettendoli in fuga o massacrandoli in diverse occasioni, come nel caso di Deir Yassin e, infine, radendo al suolo circa 500 villaggi e città, per potersi stabilire, e che da allora applica sistematicamente politiche di apartheid. Dovrebbe al contrario farci pensare a quanto poco abbiamo appreso dalla storia: la memoria della Shoah dovrebbe portare tutti a lavorare per evitare che quanto accaduto allora non accada più, non solo agli ebrei (nonché a rom e sinti, omosessuali, disabili e dissidenti politici, sempre dimenticati nella narrazione), ma a tutti quei popoli oppressi, oggetti di razzismo, apartheid, segregazione. Dovrebbe farci gridare allo scandalo e all’indignazione. Invece, in tanti temono l’accostamento dei fatti di oggi a quelli di ieri.
L’accostamento non dovrebbe farci paura, al contrario, dovremmo guardare alle similitudini. I campi di concentramento e le camere a gas non sono arrivate all’improvviso, ma sono stati gli elementi finali di una politica di segregazione e oppressione che è durata anni, prima di giungere a quel terribile culmine. Così come oggi le politiche di apartheid di Israele potrebbero, in un futuro, anche lontano, culminare con la cacciata di tutti i Palestinesi dalla propria terra. Dovremmo avere gli anticorpi per fermare questa malattia prima che giunga “alle camere a gas”. Soprattutto dovremmo renderci conto che il male della storia non si replica identico a sé stesso, ma trova altri modi per ripetersi al fine di non farsi riconoscere. Dovremmo anche sapere che l’oppresso può trasformarsi in oppressore, ce lo dicono la storia, la psicologia. Essere contro le politiche sioniste di Israele non ha nulla a che fare con l’antisemitismo, al contrario, significa proprio onorare la memoria di chi è morto a causa di un regime totalitario e razzista, che fondava la sua stessa costruzione sull’esclusività di una sola “razza”, proprio come Israele si fonda sull’idea di uno stato esclusivo per gli ebrei, in cui i cosiddetti arabi israeliani sono solo una sbavatura, una comunità che vive in una condizione di non parità.
Insomma, la memoria, o meglio, lo studio della storia dell’Olocausto non dovrebbe essere un feticcio intoccabile, ma uno strumento in mano a tutti per condannare atti che, se anche non hanno le proporzioni che ha raggiunto nelle sue fasi finali, hanno anche solo in parte le stesse fattezze, anche quando a commettere questi atti sono gli eredi delle vittime, financo le vittime stesse. L’essere vittima o erede della vittima non vale come licenza per commettere alcun crimine, anche il più insignificante, facendosi scudo attraverso questa condizione.
Invece domani molte manifestazioni contro il genocidio che Israele sta commettendo e per la libertà del Popolo Palestinese non sono state autorizzate perché “non opportune”. Un’altra occasione mancata per dimostrare di essere una società matura e in grado di evolvere.
Vi condivido un articolo che ho trovato molto interessante e che sicuramente spiega meglio di me questa complessa posizione. Si tratta di un’intervista allo storico Enzo Traverso che ho trovato solo ieri, ma che risale a inizio novembre.
Con dolore e preoccupazione condividiamo un’altra storia di arresto arbitrario e intimidatorio in Cisgiordania.
Il 17 gennaio è stato arrestato Khaled Al Saifi, direttore del centro culturale Ibdaa, storico presidio del campo profughi di Dheisheh a Betlemme, luogo in cui si realizzano progetti culturali ed educativi rivolti soprattutto ai bambini e alle donne del campo profughi.
A otto giorni dall’arresto Khaled Al Saifi è stato condannato a 5 mesi di detenzione amministrativa, ovvero una procedura eccezionale ammessa solo in casi di necessità per garantire la sicurezza del territorio. Purtroppo Israele ne fa un uso diffuso e sistematico, da mezzo eccezionale è diventato un mezzo ordinario in cui è previsto la privazione della libertà dei civili palestinesi, senza accusa né processo. Al 7 ottobre circa mille palestinesi erano presenti nelle carceri israeliane in regime di detenzione amministrativa. Ciò comporta limitazioni significative ai diritti fondamentali dei detenuti, nelle fasi di arresto, interrogatorio, nonché nel trattamento e nelle condizioni di detenzione. Come previsto dalla detenzione amministrativa, il periodo potrà anche essere esteso e rinnovato senza limite di tempo.
Come segnala l’articolo che condividiamo, il centro culturale era stato colpito da un raid dell’esercito settimane fa e aveva subito danni economici e strutturali. Dopo poche settimane Khaled Al Saifi è stato sottoposto a un interrogatorio di sei ore, sull’attività dell’associazione.
Khaled Al Saifi ha circa 70 anni, e ha bisogno di seguire delle terapie farmacologiche per la sua salute.
Nello stesso periodo sono stati arrestati anche i direttori di associazioni culturali, educative e di volontariato nel campo di Aida, sempre a Betlemme.
Parliamo tra gli altri di Munther Amira e Anas Abu Srour, dello Youth Center.
Questo è un duro attacco rivolto alla società civile palestinese che non possiamo accettare.
Chiediamo che Khaled e tutti i prigionieri e le prigioniere detenute in modo arbitrario vengano liberati subito.