Rami, contrariamente a quanto avevo capito precedentemente, da dopo l’arresto continua a trovarsi a Betlemme, non a Gerusalemme, questo significa che Asia, sua figlia, non può fare le cure necessarie per il suo cancro, così come non possono suo fratelle e sua sorella, che si trovano a Gaza e affrontano una sorte anche peggiore. Ognuno di loro è impedito, in modi e condizioni diverse, a muoversi dai luoghi dove si trovano. Rami ha detto che finché l’attuale “guerra” non finisce, sono bloccati e non possono tornare a Gerusalemme per le cure. La morsa nei confronti dei palestinesi si fa sempre più dura ovunque. Non si tratta effettivamente di qualcosa di nuovo, ma di qualcosa che incrementa di giorno in giorno.
Qualche giorno fa sono riuscito a risentire, dopo almeno quattro o cinque giorni in cui non ricevevo risposta, il mio amico di Ramallah. Mi ha autorizzato a riportare quello che mi ha raccontato su ciò che sta vivendo in questi giorni in Cisgiordania, ma mi ha chiesto di non nominarlo per sicurezza.
Da quando è iniziata la rappresaglia israeliana mi dice che è impegnato di giorno con il lavoro e tutte le sere con la Croce Rossa. Mi ha scritto alle 2.40, mentre da me erano le 6 circa.
Dice che non mi ha risposto per diversi giorni perché sta lasciando lo smartphone a casa.
“La situazione è impazzita, non so più come potrà finire. Sono esausto, ogni mattina mi sveglio e mi sembra di dover raccogliere i miei pezzettini, per poter continuare il giorno seguente, sapendo che anche fare il minimo può dare una piccola speranza e mantenere la stabilità.
Non vedo la mia famiglia da tempo.
La mia famiglia è al villaggio, ma i militari sono impegnati a Nablus e Jenin, per cui stanno bene.
Sono giorni di follia lì.
Ma andrà tutto bene.“
Gli rispondo che prima o poi questa follia dovrà finire e la comunità internazionale dovrà prendere una posizione.
Dice che riesce a vedere un piccolo cambio grazie alla pressione delle persone che ovunque stanno manifestando e protestando.
Gli chiedo dell’attacco a Jenin, quello di settimana scorsa: quattordici morti, il campo profughi è stato bombardato utilizzando i droni, poi sono entrate le truppe di terra.
Stessa cosa al campo di Balata a Nablus, dove gli scontri sono andati avanti per sei ore, con i coloni che stanno approfittando della situazione per fare ulteriori disastri nelle strade.
A questo punto mi manda dei messaggi vocali. Ha una voce stanca, rotta, si sente che è esausto e in difficoltà: “i militari stanno mirando tutti i giovani che si trovano nelle strade tra le città. Se ti assumi il rischio di viaggiare da una città all’altra rischi di essere fermato e arrestato per ore. Fuori dalle città, per esempio Ramallah, è pieno di check-point. Le città sono chiuse, ma alcuni giovani riescono a uscire per raggiungere le proprie famiglie e trovano checkpoint ovunque, dove vengono fermati e tenuti prigionieri per almeno quattro ore. Vengono umiliati o vengono bendati, come avveniva anche prima. Questa è la cosa migliore che ti può accadere, perché se incontri i coloni potrebbero spararti o lanciarti addosso sassi.”
Gli chiedo se posso condividere la sua testimonianza. “Certo, fallo, ma non mettere il mio nome, perché stanno succedendo cose che non avevo mai visto prima, è incredibile: ogni giorno ci sono incursioni per arrestare persone che parlano sui social media, che guardano video, o sono sui canali Telegram. È una follia!“
Mi manda un video che già avevo visto su alcuni canali social, con i soldati che perquisiscono per strada delle ragazzine, toccandole in tutto il corpo e umiliandole.
“È per questo che lascio lo smartphone a casa. Stiamo facendo tutti la stessa cosa, soprattutto se ci muoviamo per le strade, tra le città e di sera o di notte. Arrestano le persone solo per il fatto di avere Telegram sul cellulare. Hanno introdotto nuove regole per i palestinesi nei territori del 48 (Israele), anche solo per chi guarda dei video.” Quest’ultima cosa l’avevo già vista tramite video in cui viene mostrato l’arresto di una donna palestinese in Israele per aver scritto qualche commento sui social o per aver condiviso dei contenuti. Nella didascalia del video si parla di un anno di detenzione.
Un trafiletto del Manifesto di ieri che mi è arrivato su uno dei gruppi Whatsapp con le persone del gruppo di lavoro Palestina di Casa per la Pace dice che un paio di giorni fa il parlamento israeliano ha approvato una legge per la quale qualsiasi cittadino straniero impegnato in campagne o raccolte fondi può essere dichiarato terrorista.
Nel frattempo hanno dichiarato terroriste anche alcune organizzazioni palestinesi, tra cui Addameer, che abbiamo visitato questa estate durante il viaggio con Casa per la Pace. Addameer è un’organizzazione di avvocati che da anni documenta gli abusi e le torture che avvengono nelle carceri israeliane. La loro testimonianza è stata una delle più shoccanti tra quelle a cui abbiamo assistito, in quanto racconta per filo e per segno il grado di violenza che avviene dietro le mura delle carceri e dietro le sbarre. Incluse le punizioni collettive, quali la detenzione dei cadaveri dei prigionieri che muoiono durante il periodo di detenzione, fino alla conclusione della pena, solo per citarne una.
La punizione collettiva è una delle strategie israeliane conclamate e spesso riportate nei diversi rapporti che si possono trovare facilmente ovunque. Per fare un altro esempio: la demolizione delle case delle famiglie dei freedom fighters palestinesi.
L’altro esempio è sotto i nostri occhi: i bombardamenti su Gaza sono una punizione collettiva fatta passare per operazione militare.
Leggendo il libro di Ilan Pappè La Pulizia Etnica della Palestina risulta evidente che quello che sta accadendo ha le terribili sembianze di quello che è accaduto nel 48, quando nel piano Dalet, era ben descritto cosa avesse fatto nei villaggi palestinesi per fare di che i palestinesi li evacuassero e non tornassero. Si legge: Obiettivi operativi delle Brigate «distruzione dei villaggi (appiccarvi il fuoco, farli saltare in aria con esplosivi e disseminare di mine le macerie), in particolare i centri di popolazione in cui è difficoltoso il controllo continuo. (…) Realizzare operazioni di ricerca e di controllo in funzione delle linee seguenti di condotta: accerchiamento e saccheggio del villaggio. In caso di resistenza, le forze armate devono essere distrutte e la popolazione espulsa al di fuori delle frontiere dello Stato ebraico».
Dico al mio amico di andare a dormire e di cercare di prendersi cura di se stesso.
Mi risponde con un filo di voce “vorrei solo svegliarmi domani e vedere che tutto questo è finito.”
Questa ultima frase mi spezza in due ogni volta che la riascolto.
A me, personalmente, sembra che l’unica speranza di fronte alla ferocia assurda e indiscriminata di Israele sia che la comunità internazionale smetta di negare l’evidenza.